Incontro con Dario Fo al teatro Bonci di Cesena nel gennaio del 1990
l’esperienza cesenate del laboratorio teatrale alla casa del popolo di Sant’Egidio di Cesena alla fine degli anni 60

di Vincenzo Marano
Incontro Dario Fo nella prima metà del mese di gennaio del 1990 sul palcoscenico del Teatro Alessandro Bonci di Cesena, non tanto per parlare del suo ultimo spettacolo, "Il papa e la strega", ma per fare un percorso nel tempo sul suo rapporto con la città e con le case del popolo del PCI romagnolo, per il quotidiano "La Gazzetta di Rimini". Ricordo il periodo del fermento del teatro politico svolto con il gruppo "Nuova Scena", una forma di teatro che avveniva principalmente nelle "cantine" e nei luoghi non abilitati allo spettacolo. Grazie all'iniziativa assunta dalle case del popolo della Romagna di portare il teatro agli operai, furono invitati, con la loro compagnia, ad esibirsi nelle "case del Popolo" di Sant'Egidio di Cesena, dove tra l'autunno del 1968 e il 1969 furono messi in scena "La grande pantomima" e "Mistero buffo". "Il fatto grande- ricorda Fo-fu di aver sviluppato un coinvolgimento totale da parte del pubblico, per cui non era fruitore meccanico e passivo, bensì fruitore attivo. Decideva di cosa si doveva fare e, soprattutto, di cosa si doveva parlare. Il pubblico, attraverso i dibattiti, era quello che doveva sviluppare la ricerca e stabilire i temi da mettere in scena". Il dibattito con quella nuova forma di teatro iniziava a suscitare interesse, e nel giro di poco tempo cresceva l'interesse per questa nuova forma di teatro. "Non avevamo un programma, pensavamo di portare il nostro teatro alla gente e parlare con loro per valutare insieme se gli andasse bene il discorso. Ci commissionarono, in poche parole, uno spettacolo che dovevamo fare. Ecco che, a questo punto, venne fuori un intervento teatrale impostato sullo sfruttamento dei ritmi di lavoro e sui metodi della catena di montaggio, e credo che sia stato l'unico momento storico in cui era il pubblico a decidere. Non tutti erano soddisfatti di questi nostri progetti", prosegue Fo, "prima venivano a vederci un pochettino sospettosi, ma poi, pian piano, entrarono nel nostro registro di gioco, capirono che si lavorava. Erano meravigliati della fatica che si faceva, il fare e disfare. Parteciparono al lavoro fisico nostro e con il lavoro fisico si cominciò a discutere e parlare". Questa modalità di coinvolgimento dei militanti a forme partecipate espressive sconvolse un po' l'apparato del partito locale. "Infatti, il nostro modo di fare teatro creò un marasma generale, perché per la prima volta si misero sul piatto cose che nel partito non si discutevano mai, che nessuno si azzardava a mettere in campo perché c'era una specie di accettazione, un rituale annegato.
Naturalmente, molti presidenti delle case del popolo cominciarono a preoccuparsi e ci attaccarono, duramente e grossolanamente, al punto che intervennero le alte "sfere" cercando di toglierci di mezzo, di limitare le nostre possibilità di agibilità". A questo punto gli chiedo se esiste ancora un teatro politico. Se c'è interesse a questo tipo di spettacolo. "Non esiste neanche il teatro politicizzato, figurati se esiste quello politico. C'è il distacco, l'ignavia, la non partecipazione al confronto, esiste sempre il "non" delle cose. Il discorso disimpegnato è maturato fino a diventare uno stile, e si parla di teatro disimpegnato quasi con orgoglio".